“Prima di condividere questa storia ho esitato parecchio. Forse perché è difficile. Forse perché è di natura molto personale. Forse perché dopo averla scritta non sono stata più in grado di buttare giù neanche un’altra riga per mesi”. Eppure Rachael Clarke, madre, moglie e scrittrice, lo ha fatto sulle colonne dell’Huffington Post perché “di queste cose dovremmo parlare”. Perché parlarne aiuta a elaborare il lutto.
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“Oggi – racconta – sono incinta di un bebè sano e scalciante. Il suo battito è forte, le sue funzioni vitali sono perfette, e lei sta crescendo e si sta sviluppando splendidamente. Ma non è così che è andata col mio ultimo bimbo, il mio bimbo delle dimensioni di un chicco di riso, che si stava appena iniziando a formare”. Era arrivata a cinque settimane. “A svegliarmi, quel mattino presto, fu un dolore che avvertivo, come acqua che iniziava a riscaldarsi. Si diffuse presto all’addome, come se il fuoco l’avesse mandata in ebollizione. Mia figlia di due anni dormiva al mio fianco, coi suoi capelli biondi, respirava piano. Mio marito dormiva serenamente di fianco a lei. Sapevo che avrei dovuto andarmene in quel momento, prima che entrambi aprissero gli occhi, prima che mia figlia potesse aggrapparsi a me, insistendo per accompagnarmi”. Quella mattina Rachael perse il bimbo.
“Quando tornammo a casa, quel giorno, era quasi il tramonto. Fummo accolti da una torta senza glassa sul bancone della cucina. Nel caos dei bagagli era stata dimenticata. Dopo cena la ricoprii di glassa, e lasciai che mia figlia vi spargesse della granella colorata. La chiamai – dice – la torta dell’amore della mia famiglia, e dissi che la stavamo mangiando perché eravamo una famiglia. Perché noi eravamo qualcosa da festeggiare. Perché la vita era qualcosa da festeggiare. E fra me e me, rivolgendomi al bambino che non sarebbe mai nato, pensai: sto festeggiando anche te. Perché tu conti. Conterai sempre”.
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