Il pubblico di Caffeina Festival è rimasto incantato dalle toccanti parole di David Grossman che, nello splendido scenario di piazza san Lorenzo, è stato a intervistato da Paolo di Paolo. DI seguito una breve sintesi dell’incontro. L’autore ha spiegato il suo rapporto con la scrittura: “Scrivere è il mio modo di capire la vita. Scrivere significa Essere, con la E maiuscola. Non mi viene in mente nessun altro atto che mi permetta di Essere. Quando scrivo una storia inizialmente non capisco quanto sia importante, sento di doverlo fare e vado avanti senza avere chiaro in mente dove mi vuole portare. Poi lentamente io la sbuccio, strato dopo strato, come se strappassi una cataratta dall’anima, in questo modo la libero e solo allora ne capisco la potenza”.
Quanta difficoltà prova nel dover commentare la situazione politica?
“Io vivo in un paese che ha una realtà talmente angosciosa che obbliga le persone a confrontarsi continuamente con drammi che possono essere fatali, che spesso lo sono. Preferisco la prosa alla scrittura giornalistica perché mentre con quest’ultima hai il solo compito di raccontare il fatto freddo e scarno, con la narrativa crei un mondo e puoi fare in modo che il lettore si immedesimi in quello che dici, entri nella storia, provi empatia. Per questo anche quando scrivo saggi o articoli di giornale insisto per esempio sui particolari. Dovremmo rifiutare i soliti stereotipi quando guardiamo la tv: i mass media hanno la tendenza ad usare schemi mentali sempre uguali. Come se i giornalisti ci dessero in pasto un cibo predigerito, propinandoci solo quello che vorremmo sentire. I media molto spesso ci trasformano in massa acefala. Quando leggo i giornali mi sento usato e abusato: sento il loro tentativo di trasformarmi in strumento per produrre giudizi tagliati con l’accetta su situazioni che in realtà sono molto più complesse. La letteratura è molto importante perché ti fa vedere le cose da altri punti di vista, ti fa vivere le notizie dall’interno. Shimon Peres mi ha raccontato che ogni volta che deve visitare una nazione chiede di leggere gli autori principali di quel paese e solo a quel punto può ritenersi in grado di visitarlo”.
Parliamo dell’ultimo libro Caduto fuori dal tempo: è un libro che si avvicina più alla poesia che alla prosa, una novità per i lettori di Grossman. Cosa lo ha spinto a cambiare genere, e cosa intende per “laggiù”?
“Non sono credente , non traggo conforto dal pensiero che ci sia un mondo nell’aldilà. Il laggiù non è un luogo concreto: è il bisogno disperato che ho provato di non arrendermi agli stereotipi che la gente ti riversa addosso quando sei in lutto. Abbiamo diritto di dare un nome alle cose anche quando queste sono terribili. È un atto che ci aiuta a reagire. Ho dovuto scrivere. Mi sono seduto a scrivere in prosa e mi sono trovato a scrivere poesia. La poesia è la lingua del mio lutto. E io ho imparato una cosa: noi non sappiamo cosa c’è laggiù o lassù ma c’è un modo, almeno per me, per andare fin dove è possibile a raschiare, ad assaggiare un po’ di quel laggiù e tornare indietro per descriverlo. È la via dell’arte. È il miglior modo per poter essere appieno dentro la nostra vita. Stare a stretto contatto con la morte, conviverci: questo è il luogo dell’arte nella mia vita”.