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160 anni fa nasceva Rimbaud, 5 poesie per ricordare il poeta maledetto

Il 20 ottobre 1854 nasceva a Charleville-Mézières, Arthur Rimbaud, poeta maledetto che passò come una meteora su questa terra (morì a soli 37 anni a causa di un tumore alla gamba), ma che in brevissimo tempo entrò con impeto nella scena intellettuale francese. Iniziò a scrivere poesie a 15 anni mostrando immediatamente la sua intenzione di demolire tutte le rassicuranti convenzioni sociali e letterarie. Ribelle, anticonformista, scanzonato e sovversivo indignò la borghesia, derise la morale cattolica, e la scandalizzò con la sua vita di eccessi, fece discutere a causa dellla sua relazione con Paul Verlaine, sperimentò il carcere e  vagabondò  per mezza Europa. All’improvviso abbandonò la letteratura e cambiò completamente vita trasferendosi in Africa dove si diede al commercio di armi, pellami e spezie. La malattia lo obbligò a tornare in Francia dove morì il 10 novembre 1891. Da allora il suo mito di ragazzo ribelle e appassionato non ha mai smesso di affascinare e sedurre.  Dopo la foto cinque poesie per ricordarlo

 


 

Romanzo

Non si può essere seri a diciassette anni.

– Una sera al diavolo birra e limonate

E i chiassosi caffè dalle luci splendenti!

– Te ne vai sotto i verdi tigli del viale.

Come profumano i tigli nelle serate di giugno!

L’aria talvolta è così dolce che chiudi gli occhi;

Il vento è pieno di suoni, – la città non lontana, –

E profuma di vigna e di birra…

– Ed ecco che si scorge un piccolo brandello

D’azzurro scuro, incorniciato da un piccolo ramo,

Punteggiato da una cattiva stella, che si fonde

Con dolci brividi, piccola e tutta bianca…
 

Notte di giugno! Diciassette anni! – Ti lasci inebriare.

La linfa è uno champagne che ti sale alla testa…

Si vaneggia; e ti senti alle labbra un bacio

Che palpita come una bestiolina…

Il cuore, folle Robinson nei romanzi,

– Quando, nel chiarore di un pallido fanale,
 

Passa una signorina dall’aria incantevole,

All’ombra del terrificante colletto paterno…

E siccome ti trova immensamente ingenuo

Trotterellando nei suoi stivaletti,

Si volta, lesta, con movimento vivace…

– E sulle tue labbra muoiono le cavatine

 E sei innamorato. Preso fino al mese d’agosto.

Sei innamorato. – I tuoi sonetti La fan ridere.

Gli amici se ne vanno. Sei di pessimo gusto.

– Poi l’adorata una sera si è degnata di scrivere…!

Quella sera,… – torni ai caffè splendenti,

Ordini birra o limonata…

– Non si può essere seri a diciassette anni

Quando i tigli sono verdi lungo il viale

 

La mia bohème
(fantasia)

Me ne andavo, i pugni nelle tasche sfondate;

E anche il mio cappotto diventava ideale;

Andavo sotto il cielo, Musa! ed ero il tuo fedele;

Oh! quanti amori splendidi ho sognato!

I miei unici pantaloni avevano un largo squarcio.

Pollicino sognante, nella mia corsa sgranavo

Rime. La mia locanda era sull’Orsa Maggiore.

– Nel cielo le mie stelle facevano un dolce fru-fru

Le ascoltavo, seduto sul ciglio delle strade

In quelle belle sere di settembre in cui sentivo gocce

Di rugiada sulla fronte, come un vino di vigore;

Oppure, rimando in mezzo a fantastiche ombre,

Come lire tiravo gli elastici

Delle mie scarpe ferite, un piede vicino al cuore!

 

 

I corvi

Signore, quando i campi sono freddi,

Quando sui casolari diroccati,

Tacciono i rintocchi dell’angelus…

Sulla natura sfiorita

Fa’ che si avventino dai grandi cieli

I corvi cari e deliziosi.

Strana masnada di severi stridi,

Il vento freddo vi aggredisce i nidi!

Oh voi, lungo i fiumi ingialliti,

Voi, per le strade d’antiche vie crucis,

Sopra i fossati e sopra le buche

Disperdetevi, su, radunatevi!

 
A migliaia, sui coltivi di Francia,

Ove dormono i morti dell’altro ieri,

Su, d’inverno, turbinate,

Affinché ogni passante ripensi!

Che tu sia il banditore del dovere,

Oh nostro funereo uccello nero!

 
Però, santi del cielo, sulla quercia,

Alta a maestra nella sera incantata,

Lasciate le capinere do maggio

Per chi in fondo al bosco, sull’erba

Da cui nessuno sfugge, è incatenato

A una disfatta che non ha domani.

 

Le mani di Jeanne-Marie

 

Jeanne-Marie ha delle mani forti,

Mani scure conciate dall’estate,

Mani pallide come mani morte.

– Sono forse le mani di Juana?

 
Han forse preso le melme brune

Sugli acquitrini di voluttà?

Son forse sprofondate nelle lune

Dai bianchi stagni di serenità?

 
Hanno forse bevuto cieli barbari,

Quiete sulle ginocchia deliziose?

Avranno forse arrotolato sigari

O fatto contrabbando di diamanti?

 
Sui piedi ardenti delle Madonne

Hanno fatto avvizzire fiori d’oro?

E il sangue nero della belladonna

Che dentro il loro palmo scoppia e dorme.

Son forse mani che han cacciato i ditteri

Che fan vibrare le azzurrinità

Aurorali, vicino ai nettarii?

Son mani che decantano veleni?

Oh! quale sogno le ha dunque sorprese

In qualche loro pandiculazione?

Forse un sogno inaudito dalle Asie,

da Kenghavàar oppure da Sionne?

– Queste mani non han venduto arance,

Né son scurite si piedi degli dèi:

Queste mani non han lavato i panni

Di pesanti neonati senza sguardo.

Non sono certo mani di cugina

Né di operaie dalla vasta fronte

Che brucia, in boschi fetidi d’industria,

per un sole ubriacato di catrame.

 

Fate per stendere a terra i gropponi,

Son mani che però non fan mai male;

Ancora più fatali delle macchine,

Più forti di un cavallo tutto intero!

Sempre in subbuglio come fornaci,

Scuotendo con violenza tutti i fremiti,

La loro carne canta Marsigliesi,

Né si abbandona mai ai chierieleison!

Potrebbero agguantarvi per il collo,

Donne cattive, o schiacciarvi le mani,

Nobili donne, quelle mani infami

Piene di biacca oppure di carminio.

Lo splendore di quelle mani amanti

Può far girare il cranio delle pecore!

Nelle loro falangi saporose

Brillando il sole incastona un rubino!

Una macchia color della plebaglia

Le rende brune come un seno d’ieri;

È proprio al dorso di codeste Mani

che ogni fiero Ribelle ha dato un bacio!

 
Son diventate pallide, magnifiche,

Sotto il gran sole carico d’amore,

Impugnando le canne di mitraglia

Attraverso Parigi ammutinata!

Ah! qualche volta, Mani consacrate,

Sui vostri pugni, Mani dove tremano

Le nostre labbra mai disincantate,

Stridono chiari anelli di catena!

 
E uno strano sussulto scuote il fondo

Del nostro essere, quando vi si vuole

Sbiancare, Mani d’angelo, facendo

Sprizzare il sangue dalle vostre dita!

 

 

Il battello ebbro

 Mentre discendevo i Fiumi impassibili,

Non mi sentii più guidato dai bardotti:

Pellirossa urlanti li avevano bersagliati

Inchiodandoli nudi ai pali variopinti.

Ero indifferente a tutto l’equipaggio,

Portavo grano fiammingo o cotone inglese.

Quando coi miei bardotti finirono i clamori,

Mi lasciarono libero di discendere i Fiumi.

 
Nello sciabordio furioso delle maree,

Io l’inverno scorso, più sordo del cervello d’un bambino,

Correvo! E le Penisole andate

Non subirono mai sconquassi più trionfanti.

La tempesta ha benedetto i miei marittimi risvegli.

Più leggero di un sughero ho danzato sui flutti

Che si dicono eterni avvolgitori di vittime,

Dieci notti, senza rimpiangere l’occhio insulso dei fari!

Più dolce che per il bimbo la polpa di mele acerbe

L’acqua verde filtrò nel mio scafo d’abete

E dalle macchie di vini azzurri e di vomito

Mi lavò disperdendo l’ancora e il timone.

E da allora mi sono immerso nel Poema del Mare,

Intriso d’astri, e lattescente,

Divorando gli azzurri verdi; dove, relitto pallido

E rapito, un pensoso annegato a volte discende;

 
Dove, tingendo a un tratto le azzurrità, deliri

E ritmi lenti sotto il giorno rutilante,

Più forti dell’alcol, più vasti delle nostre lire,

Fermentano gli amari rossori dell’amore!

Conosco cieli che esplodono in lampi, e le trombe

E le risacche e le correnti: conosco la sera,

L’Alba che si esalta come uno stormo di colombe!

E a volte ho visto ciò che l’uomo ha creduto di vedere!

Ho visto il sole basso, macchiato di mistici orrori,

Illuminare lunghi coaguli viola,

Simili ad attori di antichissimi drammi,

I flutti che lontano rotolavano in fremiti di persiane!

Ho sognato la verde notte dalle nevi abbagliate,

Bacio che lentamente sale agli occhi dei mari,

La circolazione delle linfe inaudite,

E il risveglio giallo e blu dei fosfori canori!

Ho seguito, per mesi interi, come mandrie isteriche,

I marosi all’assalto delle scogliere,

Senza pensare che i piedi luminosi delle Marie

Potessero forzare il muso degli affannosi Oceani!

Ho urtato, sapete, Floride incredibili

Che mescolavano fiori ad occhi di pantere

Dalla pelle umana! Arcobaleni tesi come redini

Sotto l’orizzonte dei mari, a glauche greggi!

Ho visto fermentare paludi enormi, nasse

Dove marcisce fra i giunchi un intero Leviatano!

Crolli d’acqua in mezzo alle bonacce

E lontananze che precipitavano negli abissi!

Ghiacciai, soli d’argento, flutti di madreperla, cieli di brace!

Orrendi incagli sul fondo di golfi bruni

Dove serpenti giganti divorati da cimici

Cadono da alberi contorti, dagli oscuri profumi!

Avrei voluto mostrare ai bambini quelle orate

Dell’onda azzurra, quei pesci d’oro, quei pesci canori.

– Schiume di fiori mi hanno cullato mentre salpavo

E ineffabili venti per un istante mi hanno messo le ali.

A volte, martire affaticato dai poli e dalle zone,

Il mare i cui singhiozzi rendevano dolce il mio rullio

Tendeva verso di me i suoi fiori d’ombra dalle gialle ventose

E io restavo lì, come una donna in ginocchio…

Quasi un’isola, sballottando sulle mie sponde i litigi

E lo sterco di uccelli schiamazzanti dagli occhi biondi,

E io vogavo, mentre attraverso i miei fragili legami

Gli annegati scendevano a dormire, a ritroso!

Ora io, battello perduto sotto i capelli delle anse,

Scagliato dall’uragano nell’aria senza uccelli,

Io di cui né i Monitori né velieri Anseatici

Avrebbero ripescato la carcassa ebbra d’acqua;

Libero, fumante, cinto da nebbie violacee,

Io che foravo il cielo rosseggiante come un mulo

Che porta, squisita marmellata per i bravi poeti,

I licheni del sole e i moccoli d’azzurro,

Io che correvo, macchiato da lunule elettriche,

Folle legno, scortato da neri ippocampi,

Quando luglio faceva crollare a colpi di frusta

I cieli ultramarini nei vortici infuocati;

Io che tremavo udendo gemere a cinquanta leghe

La foia dei Behemot e i densi Maelstrom,

Filatore eterno delle immobilità azzurre,

Io rimpiango l’Europa dagli antichi parapetti;

Ho visto arcipelaghi siderali! e isole

I cui cieli deliranti sono aperti al vogatore:

– È in queste notti senza fondo che tu dormi e t’esili,

Stuolo di uccelli d’oro, o futuro Vigore?

Ma, davvero, ho pianto troppo! Le Albe sono strazianti,

Ogni luna è atroce ed ogni sole amaro:

L’acre amore mi ha gonfiato di torpori inebrianti.

Oh che la mia chiglia esploda! Oh che io vada verso il mare!

Se io desidero un’acqua d’Europa, è la pozzanghera

Nera e fredda in cui nel crepuscolo profumato

Un bambino inginocchiato e colmo di tristezza, lascia

Un battello leggero come una farfalla di maggio.

Io non posso più, onde, bagnato dai vostri languori,

Togliere la scia ai portatori di cotone,

Né fendere l’orgoglio di bandiere e fiamme,

Né nuotare sotto gli occhi orribili dei pontoni.

 

Portrait d’Arthur Rimbaud, Picasso, 1960.


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