Quindici mesi in mare aperto, alla deriva dell’Oceano Pacifico e in lotta disperata per la sopravvivenza. Una storia che ha dell’incredibile e che ha come protagonista Josè Salvador Alvarenga, vittima di un naufragio dal 21 dicembre del 2012 al 30 gennaio 2014.
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Alvarenga era partito dalle coste messicane per una battuta di pesca in compagnia di un aiutante, Ezequiel Cordoba, poi morto: avrebbe dovuto pescare per un giorno e fare ritorno, ma un’avaria al motore e una violenta tempesta lo hanno portato alla deriva con il compagno fino a quando non ha raggiunto l’atollo di Ebon, 6.700 miglia di distanza dal punto di partenza.
La sua storia è stata raccontata in un libro scritto da un giornalista del Guardian dopo 44 interviste, ma nella trama resta un un elemento oscuro: la morte di Ezequiel. Secondo il naufrago, l’aiutante pescatore sarebbe morto per la disperazione, rifiutandosi di mangiare pesci e carne d’uccello cruda e bere urina e sangue di tartaruga.
Dopo il decesso, Alvarenga avrebbe tenuto ancora per qualche giorno il cadavere con sè, per avere “compagnia”, prima di affidarlo all’Oceano. Secondo la famiglia di Cordoba, invece, il ragazzo sarebbe stato vittima di cannibalismo. Proprio per questo hanno chiesto un risarcimento di un milione di dollari.