È l’ormone del sole, un amico delle ossa. E per questo suo legame con la salute scheletrica, la vitamina D è da decenni sotto la lente degli esperti che a lungo hanno dibattuto sui valori soglia che permettono di identificare situazioni di carenza, in gergo tecnico ipovitaminosi D. Una definizione apparentemente semplice, ma in realtà al centro di una dibattuta controversia scientifica. Per questo, un gruppo di specialisti provenienti da tutto il mondo ha deciso di sedersi attorno a un tavolo e di affrontare alcuni degli interrogativi che rimanevano ancora aperti. (Video). Qual è il marcatore biologico o biochimico che può meglio identificare un paziente ad alto rischio di ipovitaminosi? Quali sono i valori di cut-off che definiscono un reale deficit di vitamina D? Le risposte a queste domande sono contenute in un documento pubblicato pochi giorni fa sulla rivista ‘British Journal of Clinical Pharmacology’ e oggi sotto i riflettori a Milano in occasione del 7° Clinical Update in Endrocrinologia e Metabolismo (Cuem), ospitato dal Centro congressi del San Raffaele. Il paper è frutto del summit che lo scorso anno ha riunito gli esperti internazionali – oltre 25 – in una tre giorni scientifica dedicata all’ormone del sole. (continua dopo la foto)
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“Questo consenso è a suo modo storico – commenta Giustina – in quanto per la prima volta sono state individuate soglie ideali, e condivise dai più grandi esperti presenti all’interno della comunità scientifica, per definire una condizione carenziale o di insufficienza di vitamina D. Dato che nei vari Paesi a livello mondiale si utilizzano metodi di dosaggio diversi, è difficile mettere d’accordo tutti sui livelli al di sotto dei quali si possa parlare di ipovitaminosi D e al di sopra dei quali invece si possa parlare di una sufficienza di vitamina D. Non è solo un esercizio accademico, ma è fondamentale per intraprendere l’adeguata terapia. Perciò è stato importante” il traguardo raggiunto. “Questo non vuol dire che tutti i problemi in questo ambito siano risolti: infatti, se da un lato non abbiamo ancora raggiunto una standardizzazione a livello mondiale delle tecniche di misurazione, dall’altro dagli studi clinici ci arrivano talvolta risultati contraddittori spesso legati proprio alle soglie di intervento”. (continua dopo la foto)
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Questi due aspetti, continua lo specialista, “sono due facce della stessa medaglia. Infatti gli effetti della somministrazione di vitamina D variano molto a seconda della condizione più o meno carenziale di partenza. La supplementazione su soggetti carenti mostra effetti significativi, mentre su soggetti mediamente non carenti non ci si possono attendere risultati altrettanto validi”. La definizione di ipovitaminosi D a cui sono giunti gli esperti, conclude Giustina, “rappresenta un importante passo avanti per la gestione clinica sulla base di criteri condivisi a livello internazionale. Le prossime consensus daranno l’opportunità a questo gruppo di specialisti di affrontare i problemi ancora sul tappeto”.
Caffeina news by AdnKronos