Arriva una sentenza della Cassazione con la quale si continua a disegnare lo spazio giuridico del web, talvolta privo di norme ad hoc. Il senso della pronuncia della Corte è questo: offendere una persona attraverso un post sulla sua bacheca di Facebook integra il reato di diffamazione aggravata, cioè come se l’offesa venisse portata dalle colonne di un giornale. Il principio seguito dai giudici di ultima istanza è questo: il social è in grado di coinvolgere e raggiungere una pluralità di persone, anche se non individuate nello specifico. Ed è proprio questa enorme diffusione dei contenuti, unita alla viralità che ne segue, che è suscettibile di procurare il maggior danno alla persona offesa che giustifica, quindi, la pena più severa. Sta in questo aspetto, dunque, la necessità del ricorso all’aggravante.
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La controversia presa in esame dalla Cassazione nasceva dalla denuncia-querela di un privato che aveva trovato un intervento poco cortese sul proprio profilo di Facebook, ovviamente tracciato con il nome, il cognome e la foto del denigratore. Il giudice di pace di Roma, nel luglio di due anni fa, si era però dichiarato incompetente ipotizzando – pur se ancora non contestata in atti – la fattispecie aggravata della diffamazione (articolo 595 terzo comma del Codice penale).
Anche il Tribunale ordinario aveva escluso la propria competenza a giudicare, contestando l’applicabilità dell’aggravante “giornalistica” sulla base, in sostanza, del mancato comportamento difensivo della parte offesa nella gestione dei meccanismi di privacy sul proprio profilo di Facebook. Di qui l’intervento della Corte suprema che, nel restituire il fascicolo al tribunale monocratico, accredita di fatto la similitudine tra l’offesa via internet 2.0 e la vecchia diffamazione sulle “vecchie” colonne di un giornale.
Facebook, questa novità non vi piacerà. E (forse) non lo userete più…