Dopo le oche di Moncler che hanno sollevato un grande polverone e una caduta del titolo in borsa, Report è tornata a occuparsi dei grandi marchi del lusso. quello che la trasmissione-inchiesta di Milena Gabanelli vuole mettere in risalto è il sistema che ha distrutto e sta distruggendo un patrimonio importante per il Made in Italy: l’artigiano in regola che viene sostituito con i più concorrenziali cinesi. Parte della responsabilità di questo patrimonio dilapidato sarebbe, secondo Report, di chi gestisce i marchi del lusso, cercando di aumentare i propri fatturati a scapito di valori (anche economici) importanti. Al centro dell’inchiesta questa volta è finito il marchio italiano Gucci, di proprietà del gruppo francese Kering che da dieci anni garantisce una filiera etica e controllata grazie alla certificazione SA8000 sulla responsabilità sociale. Gucci è tra i brand italiani più apprezzati al mondo. I giornalisti di Rai Tre sono riusciti a entrare dentro il sistema e osservarlo per cinque mesi. Il contibuto all’inchiesta è arrivato con una denuncia di un artigiano, Aroldo Guidotti, che nel giugno scorso ha mandato una mail alla redazione del programma.
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“Non c’è bisogno di fare Sherlock Holmes – denuncia Guidotti che si è fatto intervistare nel suo laboratorio dalla giornalista Sabrina Giannini che ha curato l’inchiesta – per vedere che alle 11 di sera a Scandicci ci sono fabbriche e laboratori tutti illuminati dove lavorano i cinesi. Io stesso li ho assunti a 4 ore ma loro ne lavorano almeno 16 al giorno. E’ questo il gioco che ci sta ammazzando. I cinesi lavorano 150 ore di più di quelle segnate”, spiega Guidotti. “I cinesi assunti part time – continua nella sua intervista a Report – mandano a casa gli operai e gli artigiani italiani grazie ad alcuni di loro che fanno da paravento e da prestanome”. Nell’occhio del ciclone, dunque, il marchio Gucci e il gran patron francese François Henry Pinault, presidente e Ceo di Kering, abbondantemente citato dalla Gabanelli come uno degli uomini piu ricchi del mondo. La maison fiorentina fondata nel 1921 da Guccio Gucci non ha accettato di parlare col programma della Gabanelli, preferendo fare le sue ragioni con una mail in cui – ha detto la Gabanelli – spiega i contenuti della certificazione sulla responsabilità sociale varata dalla maison gia 5 anni fa.
“Ma i cinesi lavorano dalle 9 di mattina alle 23 – continua l’artigiano – e le borse modello Bambù da 1.800 euro le assemblano loro. Lavorano anche il sabato ma non viene segnato”. Insomma una truffa e una farsa, alla faccia del Made in Italy tanto sbandierato come fatto di sostanza e di immagine. Gabanelli ricorda anche la prima trasmissione su questi argomenti datata 2007 dove si denunciavano molti marchi del lusso presi in castagna. “Toscana da culla della pelletteria a zona franca” dice la giornalista che mostra immagini anche delle zone produttive del Monte Amiata dove vige la stessa regola produttiva della provincia di Firenze. “Gucci lo sa o no che nelle fabbriche lavorano i cinesi?”, si chiede la conduttrice che mostra le immagini di alcuni caporali che confessano con i volti coperti di “non garantire niente” ai loro operai” e che nessuno mai chiede loro quante ore fanno al giorno.
Poi le telecamere tornano su Aroldo Guidotti che dice a un funzionario dell’ufficio del lavoro: “Secondo te come lavorano loro, i cinesi?” senza ottenere risposte. L’artigiano autodenunciandosi ai microfoni di Report ha denunziato un intero sistema, mostrando una borsa che al pubblico costa 870 euro che lui assembla per 24 euro: “Ci vorrebbero almeno dieci euro di più per questo tipo di lavoro specializzato ma non ce le danno”. Report indicca le cifre: “Gucci col Made in Italy fa profitti per un miliardo di euro”.
E arriva rapida la replica di Gucci che ”si dissocia nel modo più assoluto” dai contenuti e dalla forma del servizio mandato in onda domenica 21 dicembre da Report. ”Telecamere nascoste o utilizzate in maniera inappropriata, solo in aziende selezionate ad arte da Report (3 laboratori su 576) non sono testimonianza della realtà Gucci”, spiega l’azienda in una nota in cui risponde punto per punto su mano d’opera, filiera, laboratori e prezzo del profitto. ”Gucci ribadisce fortemente la correttezza del proprio operato impegnandosi a rendere sempre più efficaci le azioni conseguenti alle ispezioni, che saranno sempre più numerose” conclude una nota in cui si precisa che ”la signora Gabanelli non ha mai posto a Gucci alcuna domanda pertinente su quanto da cinque mesi stava girando”. “Il servizio ha accusato Gucci di consigliare l’utilizzo di ‘forza lavoro cinese a basso costo’. Tutto ciò è falso e destituito di ogni fondamento e fortemente diffamatorio”, contesta l’azienda in una nota, “così come lo è la frase del servizio secondo la quale all’interno dell’azienda ci deve essere un prestanome italiano”.
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