La tradizione vuole che la frisella sia stata portata da Enea quando sbarcò a Porto Badisco, nei pressi di Otranto. Comunque siano andate le cose è la “povertà” contadina ad avere diffuso la semplicità di un “tozzo di pane” trasformato in un momento trendy nella riscoperta dei sapori tradizionali. Nella frisella c’è la durezza della vita di campagna, la necessità di trarre sostentamento da risorse limitate. C’è tradizione, dunque. E c’è il colore di una terra che, nei secoli, ha saputo arrangiarsi. Viene chiamata anche frisa, fresa, frisillo, a seconda delle regioni meridionali, ma l’essenza è la stessa, sempre di grano duro. E ovunque la gestualità prevede un passaggio fondamentale: la frisa ha bisogno di essere imbevuta di acqua, da qui dipende tutto. In base a come la si vuole gustare, più croccante o morbida, la si deve lasciare in acqua, o passarla sotto l’acqua corrente, per circa cinque-dieci secondi, dipende dalla sua consistenza. Il resto è semplice: olio extra vergine di oliva, sale e pomodori premendoli direttamente sulla superficie della frisella. L’origano dipende dai gusti e le diverse varianti prevedono l’utilizzo di olive verdi o nere, acciughe, capperi o cucunci, basilico, cipolla, aglio, caciocavallo Dop. Si presta bene anche all’aggiunta di tonno. Ma nella sua “nudità” è la vera ricetta: solo olio, sale e pomodoro (mai cucinato). È dieta mediterranea, è colore su una tavola di pranzo, cena, aperitivo. Merenda per i bambini: abituateli al naturale. Più è rude il suo aspetto, dicono gli anziani, più è buona.