Nuove tecnologie e nuovi metodi per “autopromuoversi”. Con i selfie si parla di sé attraverso immagini “autoprodotte”. Al ristorante, mentre si accarezza il cane, mentre si fa una bravata e pure durante i rapporti intimi. Si è insomma capito che – forse sarà una moda e come tale destinata a passare – l’autoscatto è un pezzo di democrazia: può farlo chiunque e a costo zero. E senza l’aiuto di nessuno. Come per ogni fenomeno sociale ci si è chiesti se l’eccesso è una malattia o no, o almeno un disturbo di qualche natura. Sul web girava un parere dell’American Psychiatric Association, secondo cui la selfite sarebbe un nuovo disturbo mentale che si può presentare con 3 livelli di gravità diversi. Nel primo, definito “borderline”, chi soffre di selfite si scatta almeno 3 selfie al giorno, ma non li pubblica sui social network. Chi soffre di selfite “acuta”, invece, si fotografa almeno 3 volte al giorno e condivide sempre le immagini sui social. Infine, il terzo livello, definito “cronico”, corrisponde alla situazione in cui i selfie diventano vere e proprie ossessioni, il desiderio dell’autoscatto è incontrollabile e le fotografie scattate vengono pubblicate su internet almeno sei volte al giorno. Ma era una notizia falsa, creata da un sito apertamente specializzato in bufale web. Che, però, ha innescato interrogativi.
Accertata la non veridicità di queste informazioni, tutti tranquilli? O c’è dell’altro? In occasione dell’XI corso in Adolescentologia svoltosi la scorsa primavera a Genova, Teresa de Toni, pediatra dell’Università genovese, ha parlato proprio di selfite spiegando che si tratta di un fenomeno che “riguarda adolescenti alla ricerca della loro identità, impegnati a farsi scatti fotografici fino a 10 ore al giorno per trovare la foto più “appetibile”. Sono ragazzi che non riescono a essere quello che vogliono”. Insomma, pare di capire che chi esagera, in fondo, un problema ce l’ha. Ma resta il dubbio: la selfite è una malattia o no? O ci si diverte e basta?
